Docente di letteratura italiana, Vincenzo Rizzi è da sempre appassionato del settore food ed esperto della ristorazione. Delegato per l’Accademia Italiana di Cucina, l’associazione che si occupa di difendere e diffondere i patrimoni culinari regionali, ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra cui un breve saggio sui prodotti e sulle tipicità pugliesi apparso nel volume di A. Zanfi “Le Puglie, storie di terre e vini” edito da SeB editori nel 2013.
È titolare di una rubrica settimanale sulla ristorazione “A Tavola” sul Corriere del Mezzogiorno, inserto Puglia del Corriere Della Sera e collabora con guide gastronomiche regionali e nazionali, “Dolce Guida”, “I Ristoranti di Radici” e “Identità Golose”.
Particolarmente affezionato alla sua terra, la Puglia, ed esperto delle sue tipicità, ha scritto articoli sulla gastronomia e sulle tradizioni pugliesi per diverse riviste specializzate e pubblicazioni turistiche, e ha partecipato ad incontri relativi al settore dell’enogastronomia. Più volte ha fatto parte di giurie gastronomiche nazionali e ha tenuto un corsi di storia della gastronomia e cicli di lezioni sul giornalismo gastronomico all’Università degli Studi di Bari.
Italian Food Academy ha incontrato il professor Vincenzo Rizzi, raccogliendo il suo prezioso contributo su come si evoluto negli ultimi anni il settore ristorativo e sulle nuove tendenze del food.
Ecco, di seguito, quello che il professionista ha raccontato:
“Il mondo cambia sempre più rapidamente, e con esso cambiano continuamente usi e consuetudini, anche nell’ambito specifico del settore della ristorazione e degli stili di vita relativi all’alimentazione. Ambito peraltro attraversato da una lunga serie di mode e tendenze, tali da rendere il panorama particolarmente complesso e allo stesso tempo affascinante. Basti pensare a fenomeni recenti e tra loro diversissimi, come l’introduzione in cucina dell’azoto liquido e della minestra destrutturata, ad opera dello chef spagnolo Ferran Adrià; o alla diffusione della cosiddetta cucina fusion e di quella vegana.
Ma mi attengo all’ordine cronologico e, per comodità di discorso, concentro l’attenzione sulla realtà pugliese. Non solo perché è quella che mi riguarda da vicino, ma anche perché partire da una prospettiva provinciale e periferica può indirettamente aiutare a comprendere, per contrasto, quanto avviene ed è avvenuto in altre zone d’Italia.
Il passato della ristorazione in Puglia: un settore privo di identità
Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, in Lombardia, Gualtiero Marchesi rendeva nota al mondo la rivoluzionaria e celeberrima nouvelle cuisine. Contemporaneamente in Puglia, se si escludono da una parte alcune nobili eccezioni e dall’altra le osterie che facevano da mangiare in modo casalingo e popolare, la ristorazione media e medio-alta borghese proponeva una linea assolutamente senza identità, che nei casi migliori si ispirava molto alla lontana al mitico ricettario di Artusi e che non si attestava né sul piano della sperimentazione e dell’innovazione, né su quello del recupero della tipicità territoriale. Senza contare la povertà dell’assortimento enologico degli stessi ristoranti, e l’abitudine di portare l’olio in tavola non nella bottiglia di appartenenza, ma in una triste e poco igienica ampolla di vetro. Peccati che risultano essere tanto più gravi se si considera che gli ulivi e il vino sono tra le principali ricchezze della mia regione.
Il passaggio ad una lettura filologica della tradizione culinaria nostrana
Procedendo per salti e con necessarie omissioni arriviamo al giro di boa tra i due secoli, quando tutto cambia molto rapidamente. Si assiste ora ad un attenuarsi del divario nord-sud per ciò che concerne la cura rivolta alla qualità del cibo e delle materie prime, per le quali inizia a diffondersi la definizione oramai ampiamente nota del “chilometro zero”, insieme all’utilizzo, in taluni casi, dei prodotti dell’orto privato dello chef. E nel mondo della ristorazione pugliese cominciano a farsi strada due tendenze separate ma conviventi: da un lato la cucina nostrana si apre alle contaminazioni provenienti da altri paesi, e agli incontri nello stesso piatto del mare con la terra; dall’altro si assiste ad una lettura filologica della tradizione autoctona.
I nuovi orizzonti del food e il rispetto della tradizione
Si è finalmente avviato, e sviluppato negli ultimi anni, un processo di crescita in direzione della ricerca di nuovi orizzonti, senza tuttavia dimenticare il sapere atavico, che magari viene riletto in chiave di modernità e di leggerezza, per esempio limitando i soffritti, nell’ottica di un inedito interesse per il rapporto cibo-salute. Un’idea decisamente vincente: coniugare il passato con il presente e valorizzare i sapori che raccontano una storia. Un’idea che continuerà ad essere vincente malgrado la fiera opposizione rappresentata dalla vorticosa avanzata della cosiddetta globalizzazione, che mira ad omologare i gusti e a privarli del loro carattere originario. Ne sono un’evidente manifestazione tanto l’enorme diffusione dei locali di fast food e dei cibi industriali, quanto l’abbattimento di ogni barriera geografico-gastronomica. A Singapore si possono assaggiare le orecchiette, a Bari il kebab e a Oslo la pizza Margherita.
L’importanza della riscoperta della cultura gastronomica autoctona
Un ruolo importante, per la riscoperta della cultura gastronomica autoctona, è svolta dall’associazionismo dedicato, cui è demandato il prezioso compito di tutelare i patrimoni culinari regionali come se fossero oasi naturali protette con tante specie di animali in via di estinzione.
Convegni e dibattiti, studi e ricerche, e un’attenta selezione dei locali tipici, rappresentano gli strumenti, attraverso i quali si deve cercare di difendere i patrimoni culinari locali dalla ormai dilagante trasformazione della cucina in un fenomeno meramente mediatico”.